DISPENSARE INCERTEZZE / Trentottesimo giorno

Un bicchiere di Chardonnay e qualche tarallo al peperoncino, la cena. Il cortile dei cortili tace. Sorseggio il vino guardando l’uomo compasso che, affacciato al suo balcone, è impegnato nella solita e capillare ricognizione serale. A gambe divaricate, le mani infilate nelle tasche della giacca da stanza, controlla che nel cortile e sui balconi non sia accaduto nulla di nuovo. Sua moglie indossa la solita tuta, è azzurra. Azzurro Napoli. Rocco, sul suo terrazzo bazar, risistema le tre bandiere del tricolore, il vento di questi giorni le ha staccate dagli appigli provvisori.
Al terzo piano un uomo avvolge le ringhiere con una siepe artificiale. Una pratica molto diffusa da queste parti. L’uomo compasso guarda nella mia direzione. Anche io per un poco lo fisso.

Poi chiudo gli occhi e inizio un viaggio.

Nave, notte, stelle, spruzzi d’acqua salata, puzza di gasolio, rollio, io, noi. Eolie. Stromboli, Salina, Alicudi. Le isole mi piacciono, avamposti concreti di solitudine, dove sei ciò che sei, un essere umano dispensatore di incertezze.

Punto e a capo. Da qui in poi si muove soltanto la mia immaginazione.
Chissà cosa penseranno quelli che verranno dopo di noi, quelli nati fra cent’anni. Cosa sapranno sulla rovinosa pandemia virale, sui nostri giorni interrotti, sui sentimenti posticci e imbrattati di banalità? Mi piacerebbe vedere i loro volti mentre sfogliano il grande libro della storia sbagliata. Saranno migliori di noi? Avranno sconfitto paure e idiozie? Avranno ancora bisogno di martiri ed eroi?
Chissà se rideranno di noi guardando le immagini dei balconi, le istantanee delle nostre case violate, le canzoni, le lacrime, gli applausi. Pietà o disgusto? Magari, per la nostra scelleratezza, sono stati costretti a fuggire altrove, su un altro pianeta e questo sarà soltanto un astro spento e disabitato.
Chissà se metteranno un veto, un omissis, su tutti i diari della quarantena perché nocivi alla memoria delle future generazioni.

Dove finirà fra cent’anni tutta l’arte di ieri, i romanzi, le antiche scritture che già noi abbiamo quasi dimenticato? Chi racconterà loro di noi?

Sono quasi quaranta. Quaranta giorni di reclusione obbligatoria, eppure nessuno si ferma. Tutti a reinventarsi, a tentare di costruire un dopo che ancora non c’è. Riempiamo ogni ora della giornata per non perderci un evento in diretta streaming. Lì parla uno scrittore, dall’altro lato un esperto di marketing, lì qualcuno tiene lezioni sul design. E poi contest su contest, arte, scrittura, cucina, viaggi virtuali. Rispondiamo al richiamo, presenti sempre, per paura di sparire.
Forse lo stiamo affollando troppo il virtuale, un “mondo” provvisorio che titilla le nostre ambizioni. Starne lontani è sempre più difficile. E ho la sensazione che ripetiamo gli stessi errori di prima. Presidiamo, con malcelata arroganza, la nostra fortezza, la difendiamo da un nemico che non arriva e mai arriverà.

Non è troppo? Non so. Stasera ho dubbi anche sulle mie parole, sull’utilità di ciò che scrivo. È davvero necessario? E dopo, cosa ne sarà di me? Dopo, quando il sipario sarà calato, e qualcosa simile alla vita di prima ricomincerà, cosa resterà della mia ammaccata e monca esistenza virtuale?

Ho sfruttato abbastanza questo tempo ritrovato per migliorarmi nella vita reale? Ho sepolto i rancori e i ripianti? Oppure tornerò come prima, prima di tutto questo?
Dubbi su dubbi, domande su domande. Una stella fredda del mio piccolo universo. Ma i piedi li ho ben piantati a terra e so bene che le promesse resteranno promesse e che qualche sogno resterà pura utopia. È la vita, bellezza.E anche se vivo in un Grande Castello Fatato la finestra sulla realtà è sempre aperta, in certi giorni canto e ballo, in altri mi prende la nostalgia di ieri, in altri sono un fiume in piena di travolgente vitalità. Sono tante cose. Sono io.

Domande su domande. Le parole zoppicano su questi miei pensieri alterati.

Chissà se quelli di dopo mangeranno le fragole a primavera, e se d’estate affolleranno le spiagge. E cosa si sognerà la notte, tra cent’anni? Ho avuto la mia parte di sabbia, dice la canzone che parla di campioni. La mia parte di sabbia è senza eredi, dopo di me nessuno. La mia tomba sarà asciutta e senza fiori.

Forse il popolo tra cent’anni farà tabula rasa di questo e avrà un nuovo inizio in un punto qualsiasi dell’universo.

©MimmaRapicano_2020

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