RATARATÀ! / Decimo giorno

Orsù, dunque, è ora di cambiare!
Cambiare il nome a parole ed espressioni che, da diecigiornitonditondi, mettono angoscia, rubano il sonno, ci fanno tremare i polsi e le gambe, rivoltano l’intestino e da svegli procurano fastidiosissime tachicardie.

Parole scivolate nelle nostre orecchie come stille velenose: le ascoltiamo dai telegiornali, le ripetono gli esperti, le pronunciano i cantanti e gli attori, ballerini, scrittori, avvocati, parrucchieri, medici, operai… Insomma, tutti a dire le stesse cose come se il nostro vocabolario si fosse di colpo rinsecchito. 

Non suggerisco di abolirle del tutto, la lingua italiana è una grande signora e va rispettata, ma di cambiarle momentaneamente per chi, da diecigiornitonditondi, vive nella terra di mezzo. Il prima è già storia, il dopo è tutto da reinventare.
Quello che vengo qui a suggerire è la creazione di un “dizionario provvisorio”.
Sostituire, per esempio, la parola “quarantena” con una che abbia il sorriso tra le vocali e le consonati, che ispiri fiducia e dia pure un poco di allegria. Luce e leggerezza, ecco.

Che ne so… dire Rataratà per indicare quarantena.
Come va oggi la tua Rataratà?
Bene, grazie, le solite cose. E tu?
Non siamo in guerra ma in un clapclap.
E domani?
Flapflap, farò una torta.
O cose del genere.
Il mondo che ci aspetta?
Sarà kaboom!
E giù a ridere, ridere, ridere per sbeffeggiare la paura e tutto il resto.
Tutto il resto.
Rataratà!
E parte una risata colossale.

©MimmaRapicano_2020

Rataratà, letto da Antonella Esposito

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