DREAMS to DREAM

– Ecco, ho avviato il registratore. Sei pronta?

– Senti, ma quando metti l’intervista sul giornale, le aggiusti un poco le cose che ti dico?

– Sì, certo, non ti preoccupare, la registrazione mi serve come traccia, il testo lo riscrivo e lo correggo. Infine ci sarà la supervisione del direttore. Vedrai, sarà un bell’articolo.

– E la foto? Ci fai stampare quella che ti ho dato? Ci tengo, perché sono venuta proprio bene su quella, me l’hanno fatta al matrimonio di Susetta. Avevo un vestito bello assai, non l’hai visto? 

Sharon, ride. E mentre ride, si accarezza ripetutamente la pancia. Ride con la bocca aperta, bocca dalle labbra morbide, carnose e gonfie. Forse se l’è rifatte, una mia supposizione. Io sto sempre a fare delle supposizioni, le mie sono logiche conseguenze di ciò che vedo. Non sbaglio mai, o quasi. Lei, la ragazza che mi sta seduta di fronte, negherebbe con stizza che si è gonfiata le labbra, sono sicuro mi riempirebbe di parolacce e sputi. La guardo senza interesse, un po’ disgustato. Lei se ne accorge e si innervosisce. Cerco di stemperare la tensione, stemperare è un’arte. Le faccio dei complimenti. Sharon non risponde, mi guarda e si attorciglia al dito una ciocca di capelli, con un piede fa dei cerchi sul pavimento. Quello strusciare è un gesto innocuo, eppure a me sembra una minaccia. Il fatto di essere un giornalista non mi dà nessun privilegio, sono uno dei tanti venuti da fuori, un voyeur spedito in questo schifo di posto per raccogliere le testimonianze dei giovani di una periferia abbandonata e infettata dal malaffare.
Il direttore del giornale crede che in queste zone presto scoppierà una rivolta. Il suo non è un interesse sociologico, lui vuole riempire di merdate la nuova corrente del neorealismo post-pandemico. 
«Realtà, – ha urlato al telefono –, devi entrare nel culo di quella gente, voglio sapere come vivono, cosa mangiano, quante volte vanno al cesso. I giovani, loro saranno i più facili da intervistare, i sogni sognati da questi piccoli delinquenti. La verità, nulla di inventato, nient’altro che la verità! Chiaro?». 
Lui, il direttore, ha le sue verità. È convinto, per esempio, che oltre i confini dalla sua metropoli, quella che un tempo era da bere, siano tutti delinquenti. Tutti. Anche io, che vengo dalla campagna. Non mi licenzia, non può farlo, sono arrivato in redazione per le conoscenze importanti di mio padre. Lavoro sodo anche se sono un raccomandato e poi, a differenza di molti altri, so farlo bene il giornalista.

– Allora Sharon, sei pronta?

– Prontissima.

– Bene, parlami di te. Cosa fai e cosa vorresti fare da grande?

– Ah ah! Da grande? Ma io sono già grande non vedi? Di me ti posso dire che sono fidanzata con Pasquale, il figlio di Maria che tiene la merceria sotto casa. Ci sta da una vita quella merceria, e prima di Maria ci stava il padre, cioè il nonno di Pasquale. È un’attività che si tengono in famiglia da tanto tempo. Io e Pasquale ci conosciamo fin da piccoli, ci siamo visti crescere, come diciamo noi, e sai da cosa nasce cosa: uno sfottò, un vaffanculo, un fischio, un occhiolino, un bacio e… insomma ci siamo innamorati anche se litighiamo spesso. Qualche volte pure con le mazzate. Ma lui è l’ammore mio, guai a chi me lo tocca. L’amore non è bello se non è litigarello, no?

– Oggi le mazzate ti fanno ridere, ma domani? Quando sarete sposati… Magari di mazzate lui te ne darà sempre di più, e allora…

–  E allora fatti i cazzi tuoi. No? A me ‘ste cose dette e non dette mica mi piacciono? Io a Pasquale ci voglio bene più della vita mia. E se mi dà le mazzate c’ha sempre una ragione. L ’altro giorno gli ho detto che la mamma era una zoccola, e lui che doveva fare?

Sono finito in una sceneggiata. Più la guardo e più mi sale la rabbia e vorrei prenderla a schiaffi questa cretina e dirle che sì, forse se le merita tutte le mazzate che gli dà il suo frescone tatuato che l’ha accompagnata all’appuntamento con lo scooter, senza indossare il casco e suppongo senza assicurazione. Ma che cazzo ci faccio qui?

– Scusa, Sharon, non volevo offenderti né farmi gli affari tuoi. Mi dispiace. Continua pure.

Mi guarda con disprezzo, mette i brividi quel suo sguardo animalesco, poi continua a raccontarsi come se niente fosse successo.

– Allora, dicevo, appena faccio diciotto anni e mezzo minuto andiamo in Comune per le carte del matrimonio. Pasquale fa il meccanico insieme al cugino, hanno una bella officina. Anche io lavoro e così abbiamo due mesate, sì, insomma, come dite voi? Due stipendi. E dopo sposati ci mettiamo con mia suocera, quella sta tutta sola nell’appartamento ed è uno spreco spendere dei soldi per un’altra casa. Pasquale ci tiene molto a sua mamma. 

– E la scuola?

– Ho fatto fino alla terza media poi sono andata a lavorare con mammina. In verità ci andavo anche prima, perciò non studiavo tanto e mi addormentavo sul banco. Ci alzavamo alle cinque del mattino e con le scope, gli stracci e due secchi mammina mi portava a lavare le scale dei palazzi qua attorno. Questa cosa i professori la sapevano, quindi chiudevano un occhio. Mi volevano bene. Qualcuno di loro m’ha pure aiutata con l’esame. In sostanza la licenza media m’è stata regalata. Ecco tutto. Devo dire altro?

– Ma a te sarebbe piaciuto studiare?

– E che ne so? Io non l’ho mai capito a che serve studiare. Una cosa sola mi dispiace, che non so leggere bene come Carmela, la figlia di Gianni ‘o Re. Quella tiene una capa quadrata, una cosa che non si spiegano manco i genitori. Padre e madre, due ignorantoni che non ti dico, non hanno neanche la quinta elementare. Carmela, ultima di quattro figli, è uscita fuori razza. Quella secondo me l’hanno scambiata in ospedale quando è nata. E mo’ da qualche parte ci stanno i veri genitori disperati che si ritrovano una figlia scema che non vuole studiare. Carmela, invece, tanto che è brava, le hanno dato dei soldi e con quelli andrà pure all’Università. Lei ha la mia stessa età, ma non è fidanzata, dice che ora non le interessano i maschi. Che ammorbamento Carmè, le dico io certe volte. Lei sta sempre a casa con la testa sopra i libri. La madre all’inizio ci stava male, credeva che la figlia non fosse normale, poi s’è arresa quando dalla scuola le hanno detto che la figlia era un piccolo genio. Comunque una volta a Carmela ci ho parlato dell’ammore mio, di quello che facciamo io e Pasquale, del cuore mio sopra al cuore suo, le ho spiegato del petto che mi scoppia quando lui mi mette le mani… vabbè lasciamo stare. E quando sentiva le cose che raccontavo, s’è fatta tutta rossa. 
Un giorno l’ho convinta a uscire un poco di casa. Stavamo ai giardinetti sedute su una panchina a parlare di questo e di quello, cose da ragazze, sai com’è. Carmela teneva una borsa, lei non scende mai con la borsa. E poiché sono curiosa, a un certo punto non ce l’ho fatta più e le ho chiesto che ci teneva dentro. Lei, toma toma, senza dire niente, ha tirato fuori un libro, ha sfogliato delle pagine e si è messa a leggere ’na cosa tutta difficile. Aspetta… come si chiamava? Ah, sì una poesia. Carmela mentre leggeva si scaldava tutta e mi pareva come innamorata, ma non di uno in carne e ossa, ma innamorata delle cose che stavano in quel libro. Io non c’ho capito niente di quella poesia, recitava certe parole complicate che non avevo mai sentito nella vita mia… è stato bello, sì, parecchio bello.

Parla e ragiona in un modo a me sconosciuto, tutto fila liscio dentro la sua testa. Sharon! Sharon! Ma che razza di nome le hanno dato? Il registratore registra la sua voce, il display mangia i secondi, i minuti. Luca scatta foto, tante, troppe, da lontano, poi sempre più vicino. Gli faccio segno di allontanarsi, ché se torna quell’energumeno dell’ammore suo ci scassa i denti a tutti e due. Ma lui insiste sul viso di Sharon, sui capelli, sulle mani. Cosa ci vede di speciale? La ragazza non si imbarazza, si lascia fotografare, immobile come una divinità. Io vedo un pezzo di carne con la faccia deformata dal suo insopportabile dialetto. 

– Sono curioso, parlami del lavoro di tua madre. E poi, come ti immagini il futuro, c’è un sogno, un desiderio che vorresti realizzare?

– Mamma mia, quante domande. Parto dal lavoro, ok?

– Sì, vai.

– Mammina ha iniziato a lavare le scale quando quel puttaniere di mio padre è scappato in Germania con Rosetta. Io a quelle due latrine ci mando le maledizioni ogni mattina e qualche volta pure la sera. Quel pezzo di merda lasciò mammina nei guai, con tre figli piccoli e senza un soldo. Una vera chiavica, scusa le parolacce, ma quando ci vuole ci vuole. E lo sapeva che mammina non lavorava, stava a casa per crescere i figli. Mia madre, però, non s’è messa a piangere, ma s’è inventata un lavoro: lavare le scale dei palazzi. Il guadagno era poco, giusto per mangiare. Per fortuna la casa dove stavamo allora era di quelle occupate, quindi niente affitto e anche la luce e l’acqua non si pagava.
All’inizio a lavorare ci andava soltanto lei, però qualche mattina portava pure a me, per fare prima e passare a un altro palazzo. Avevo undici anni, o forse dodici, non ricordo. Mia madre era una donna tosta, lo è ancora, e tutti le volevano bene. Una che se doveva aiutare un povero disgraziato, più disgraziato di lei, lo faceva senza troppe cerimonie. È stato questo suo carattere che è piaciuto a un signore, un vecchio vedovo senza figli. Mammina ci andava a pulire la casa e gli faceva la spesa. Il vecchio teneva parecchi soldi sopra la banca. Si era affezionato a mia madre e ci ha fatto un prestito, senza interessi, non era uno strozzino. E con quei soldi mammina ha aperto l’attività. Ora lei sta in ufficio, le pulizie le vanno a fare le donne che tiene assunte. E non puliamo solo i palazzi ma anche gli uffici. Io, invece, rispondo al telefono, segno gli appuntamenti, faccio gli ordini ai fornitori, non sto mai ferma un attimo. La casa poi l’abbiamo affittata, tutto in regola pure i contratti delle utenze. È stata dura fare quel lavoro, da piccola lo schifavo proprio, mi vergognavo, e se facevo i capricci volavano mazzate. Insomma, se ci penso, è una vita che prendo soltanto mazzate. Però mi hanno fortificata. Ah ah…

Sharon ha i capelli lunghi e lisci, neri, nerissimi. E più ascolto la sua storia, più mi sale la nausea. E vorrei scuoterla, farle capire che è tutto sbagliato, che la sua storia è uguale a tante altre, niente di nuovo, niente. Sharon, Sharon… dove altro potresti stare se non qui, fra la tua gente? Dreams to Dream, oh, Dreams to Dream.

–  … e comunque stiamo bene, non ci possiamo lamentare. Mammina ha dato lavoro a tante donne, ha fatto molto per la gente del quartiere e tutti le portano rispetto. Non so, basta quello che ho detto? Le aggiusti le parole sul giornale, vero? 

– Sì, certo non ti preoccupare, è una cosa che ho promesso e io le promesse le mantengo.

Accenno un sorriso, cerco di fare un’espressione sincera, da bravo ragazzo ma abbasso gli occhi e mi tocco il naso, ripetutamente. Lei mi osserva, qualcosa non le torna.

– Ehi, non è che mi stai prendendo per il culo? Non sono scema e lo vedo quando qualcuno mi sta fottendo.

– Sharon, tranquilla, io…

– No, sentimi bene: io non mi faccio fottere da nessuno, e tanto meno da uno che viene da fuori. Io dico pane al pane e vino al vino. Per me possiamo pure chiuderla qui ‘sta cazzo di intervista.

È furba la ragazza e sa leggere la faccia della gente come una cartomante. Non posso dirle la verità. Non posso. La sua storia nelle mani del direttore sarà stravolta, Sharon diventerà l’ennesima vittima di un sistema tortuoso e cavernicolo che nessuno al di fuori può comprendere, né cambiare. Devo fare in fretta. Controllo il display del registratore, ancora poco, sì, ancora poco e andiamo via.

– Devi credermi, non ti sto… prendendo per il culo. Non ho nessun motivo per farlo. Allora, ti va di continuare?

– Sharon non si tiene niente, scrivila ‘sta cosa. Dovevo dirti quello che tenevo sullo stomaco. Sì sì, finiamola l’intervista le cose a metà non mi piacciono. Dove eravamo rimasti?

– Il futuro, i sogni, i desideri…

– Il futuro mio è già scritto: Pasquale l’ammore mio! Oltre a lui non ci sta più niente. Sì, voglio bene a mammina, quel bene chi lo toglie dal cuore, ma Pasquale è un amore diverso, mi è entrato dentro e non è uscito più. Mi capisci, vero? E poi si vede pure, no? Le altre cose belle per me sono le uscite il sabato sera, la villeggiatura, andare dall’estetista, ma il desiderio più grande di tutti è un paio di zizze nuove. Le ho piccole ma vorrei farmi una terza abbondante in modo che Pasquale si arricrea quando le tocca. 

A chiamare Sharon è stato il parroco, un ometto gentile, paffuto e dai capelli unti. Ci ha messo a disposizione una stanza dell’oratorio e dalla finestra aperta arriva il caos della strada, le voci della gente, i richiami, le bestemmie. Mi scoppia la testa. Da quando siamo arrivati Luca si è trasformato. Non lo capisco. Secondo lui qui la vita è nuda, è zolfo e lo eccita l’anarchia di questa gente. È colpa del vulcano, gli ho fatto io. 

– Abbiamo finito?

– Sì, Sharon sei stata perfetta. Grazie.

– Allora, hai fatto una promessa a Sharon, non te la scordare. Hai capito?

– Sì, non la dimentico.

Sharon si alza, ad aiutarla arriva la ragazzina che per tutto il tempo è stata con le spalle al muro e gli occhi fissi sul cellulare. Sharon tiene una mano sotto al pancione. Lo regge, teme che le caschi da un momento all’altro. Un nuovo sognatore viene al mondo. Tutto scorre, chi lo ferma questo circo infernale?
Saluto la futura mamma, lei mi tira il braccio e bacia la mia guancia ruvida, prima la destra poi la sinistra. A Luca riserva una floscia stretta di mano, gli allunga appena tre dita. Luca ci resta male.
Vorrei dimenticarla. Reset, cancella, vai indietro. 
Dreams to Dream che razza di titolo per un servizio giornalistico. Finalmente chiudo il registratore. Stop.

– Facciamo un’altra intervista?

– No Luca, trovo una scusa con il parroco e andiamo via. Adesso!

– E alle altre che dico?

– Quali altre?

– Fuori ci stanno almeno una decina di ragazze.

– Come?

Dreams to Dream
I lose my way
Somewhere in my dreams
Your dreams will come true

©MimmaRapicano_2020

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