ANGOLO RETTO

Non avevo mai visto un uomo fissare per ore un punto imprecisato davanti a sé con la stessa intensità del vecchio nella casa di fronte.
Dalla mia stanza posso vedere la sua camera da letto dove trascorre la maggior parte della giornata. Vedo un viso consumato dall’età, un corpo asciutto dai movimenti lenti e incerti, da animale ferito in cerca di riparo. Il vecchio abita con la moglie e una badante. Sua moglie è prigioniera in un letto portato lì dai volontari della Croce Rossa, li ho visti lo scorso autunno quando la vecchia si è aggravata e la malattia l’ha condannata alla definitiva immobilità.
Ogni mattina la giovane badante lava il corpo massiccio della vecchia, e mentre lo fa rotolare da una parte all’altra del letto le sue labbra iniziano a muoversi come fanno le parole mute sulla bocca dei pesci. Forse, per sentirsi meno sola o per regalare un attimo di felicità a quell’esistenza in bilico tra la vita e la morte, sussurra una dolce canzone della sua terra lontana.
Alle cinque del mattino le imposte in legno della casa di fronte sono già aperte e si richiudono puntuali alle sei di sera. Il palazzo, costruito il secolo scorso, è fatiscente e l’intonaco marcio cade a pezzi tanto che, visto da fuori, sembra un edificio abbandonato.
Il vecchio non esce mai sul balcone, lui se ne sta rannicchiato su uno sgabello di legno dalla logora imbottitura color marrone. Da quell’angolo retto, una spalla appoggiata al vetro degli infissi e la schiena al muro, osserva tutto ciò che accade in strada. Su quei vetri si infrange tutta la sua esistenza, oltre quel confine c’è soltanto la realtà tragica e indifferente. Se la badante gli parla, il vecchio muove solamente la testa per mimare un sì o un no. Spesso con le mani si massaggia le gambe contratte da un crampo o forse perché quello è il gesto per maledire la vecchiaia. I suoi abiti sono di due misure più grandi, come se fossero appartenuti a un altro o come se un tempo lui stesso, in quegli abiti, avesse vissuto una vita più piena. Quando è ora di mangiare, il vecchio lascia il suo angolo retto per sparire oltre la porta a vetri della camera da letto.
Mia madre lo conosce e mi ha detto che era un bravo artigiano, riparava le scarpe, l’unico ciabattino del nostro quartiere. Era stimato e rispettato, ha detto mia madre, un uomo mite dall’animo generoso e nessuno può dire di aver mai ricevuto un torto da lui. Quando io sono nato, la sua bottega era già diventata una lurida sala giochi, e del suo mestiere, per me estinto come i dinosauri, non ho nessun ricordo. Noi le scarpe non le ripariamo più, e ogni cosa consumata o rotta la gettiamo via per ricomprarne una nuova.
Tre mesi fa ho avuto un incidente con la moto, sarei morto se il caso e la fortuna non si fossero alleati per allungarmi la vita. Tra varie operazioni alle gambe e la riabilitazione, passo le giornate a far rimbalzare la noia sulle pareti della mia stanza. Presto tornerò a camminare, torneranno le folli corse in moto, tornerò a disprezzare la vita che, come urla mia madre, faccio di tutto per buttare via. Morirò al prossimo giro, le dico, o morirò di tedio in questa casa che puzza ancora del piscio della mia infanzia. A volte sfoglio i libri che mio padre ha letto e quelli che non ha potuto leggere. In alcuni ha lasciato delle incomprensibili note ai margini delle pagine e penso che quella scrittura, goffa e infantile, è tutto ciò mi resta di lui. La vecchiaia non l’ha nemmeno sfiorato, per mio padre nessuna alleanza ha funzionato. È semplicemente crepato troppo giovane lasciando crescere me e mia sorella su foto ingiallite che raccontano una storia che non ci appartiene. Mia madre dice che è stata la mancanza di un padre a rendermi così irrequieto e insoddisfatto. Teorie, le sue, che mi lasciano del tutto indifferente. Ogni tanto degli amici vengono a trovarmi e qualche amica resta anche per la notte. Scopiamo per il solo piacere di farlo, niente amore o altre implicazioni.
Poi un giorno guardo fuori e vedo quella sagoma immobile dietro i vetri della casa di fronte. Gli infissi marci sono la cornice di un quadro che si compone e scompone dall’alba al tramonto e di cui io sono l’involontario spettatore. La figura dimessa del vecchio mi ricorda quella di un santo penitente in una tela vista chi sa in quale chiesa. Sotto di lui, il resto dell’umanità è un fiume in piena e non si accorge di quello che accade appena sopra la sua testa.
In tutti questi mesi lui non si è accorto di me nemmeno quando, aiutandomi con le stampelle, mi sono affacciato dal balcone per farmi vedere e magari fargli un saluto. Niente, lui non distoglie gli occhi dal suo invisibile universo. A volte con tutto il suo corpo compie una lieve rotazione e guarda, almeno credo, la vecchia moglie adagiata come una bambola di porcellana nel suo letto-prigione. Il vecchio non si ferma mai accanto a quel letto, e anche quando si alza dal suo sgabello, sparisce in silenzio oltre la porta a vetri della stanza.
Ma cosa ci sarà oltre quella porta? La settimana scorsa ho chiesto a mia madre se sa come è fatta quella casa, se oltre la porta a vetri esiste qualcosa di diverso, di meno triste di quello che vedo io da qui. Mia madre si è messa a ridere e io l’ho odiata per la sua insensibilità. Allora ho pregato mia sorella, che è architetto, di trovare la pianta di quella casa. Lei non si è messa a ridere. Ha detto va bene e se n’è andata senza dire altro. Due giorni dopo è ritornata e mi ha consegnato una cartellina con dentro la pianta dell’appartamento di fronte. Non dirlo alla mamma, mi ha pregato, lei non approverebbe.
E così, su quei fogli ho ricostruito i movimenti del vecchio. L’ho immaginato attraversare la grande sala da pranzo che si trova oltre la porta a vetri, e poi passare nella stretta cucina fino ad arrivare in fondo e svanire nel bagno. Quella casa non ha un corridoio che taglia di netto gli spazi, ogni camera è legata all’altra senza interruzioni. Una casa fatta di mobili fatiscenti, ninnoli e centrini di cotone sparsi un po’ ovunque. Magari nella camera da pranzo c’è anche un grande specchio malandato e pieno di macchie grigie che non riflette più nulla se non il dolore e la solitudine.
Su quella pianta ho disegnato una nuova vita, una storia ben lontana dalla realtà e che non appartiene né al vecchio né a me.
Due notti fa mi sono svegliato di colpo. Un maledetto sogno. Allora ho allungato la mano sul comodino e ho cercato una sigaretta. Con la serranda alzata e gli infissi spalancati la tenda ondeggiava mentre l’aria fresca della notte lottava con il fumo acre della sigaretta e se lo portava via. Una luce fioca illuminava la mia stanza. Mi sono alzato e ho guardato fuori, la luce veniva dalla casa di fronte. La stanza dei vecchi era vuota e aperta. Anche lì l’aria entrava e cercava invano qualcosa da portare via. Per vedere meglio sono uscito sul balcone e l’ho visto. Il vecchio era in piedi e, con le mani appoggiate alla ringhiera, mi guardava. Mi ha fatto un cenno, io ho sollevato la mano e ho risposto al saluto. “Mia moglie, — ha detto, — ha avuto una brutta crisi. I medici del centodiciotto l’hanno portata via”. Poi, dopo una pausa, ha ripreso: “Si riguardi. Buonanotte”. Ha chinato il capo, si è girato con calma e ha chiuso con fatica le pesanti imposte di legno. Io sono rimasto con la mano alzata senza aver detto una parola. La mia bocca era spalancata, me ne sono reso conto soltanto quando l’aria mi ha seccato la gola. La sigaretta oramai si era consumata tra le dita e tornato a letto mi sono riaddormentato. Da ieri le imposte della casa di fronte sono chiuse ma nessuno, tranne me, si è fatto domande sull’assenza del vecchio.
Stamattina ho chiesto a mia madre di comprarmi uno sgabello di legno. Le ho specificato le dimensioni e quale forma dovesse avere. A questa strana richiesta lei non ha riso. Adesso che lo sgabello è arrivato l’ho sistemato vicino al balcone, mi sono seduto e ho appoggiato una spalla al vetro degli infissi e la schiena al muro.
Da quest’angolo retto ho finalmente compreso. Ora posso vedere. Ora so esattamente dove guardare.

©MimmaRapicano-giugno2017


Racconto pubblicato dalla rivista inutile, settembre 2017

2 Comments

  1. Profondo, nostalgico e troppo vero!
    I tuoi racconti danno corpo a tanto miei pensieri!
    Bravissima

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