L’OSPITE
Conficcato sotto la pelle, non lo vedevo ma c’era. Quel malefico parassita non mi dava tregua, seviziava la mia pelle, pelle che si arrossava e si riempiva di bolle, bolle che svanivano per poi trasformarsi in lividi dai contorni irregolari, lividi che sembravano buffe facce disegnate da un esercito di bambini. E tutti a credere che quei lividi fossi io a provocarli, che fossi io, da sola, a torturare il mio corpo.
Il prurito di notte non mi faceva dormire. Giravo per casa in mutande, uscivo sul balcone e fumavo una sigaretta dopo l’altra. – È così che funziona la vita, – mi aveva detto un amico, – tu credi di vedere delle cose ma se non le vedono anche gli altri, se non sono fatti certificati, nessuno ti crederà mai. Allora ho comprato una lente di ingrandimento, una di quelle professionali che usano i medici, e soltanto con quell’aggeggio sono riuscita a vedere i veloci e quasi impercettibili movimenti del malefico e astuto parassita. Lo vedevo solo per pochi istanti poi spariva, era chiaro che si prendeva gioco di me. Quel parassita, il cui nome scientifico è larva migrans, è più intelligente di qualsiasi altro animale e forse anche più di certi eruditi uomini di scienza. Io, intanto, continuavo a fumare, continuavo a non dormire. Una notte il prurito era talmente insopportabile che stavo per cedere. La finestra era aperta e pensai di scavalcarla, l’avrei fatto se lui, il parassita, non si fosse calmato di colpo. Come se avesse avvertito il pericolo, smise di tormentarmi. La tregua durò una settimana, in fondo a lui non conveniva che io morissi, il mio corpo era la sua fonte primaria di sostentamento, pensavo. Furbo lui, scema io a credere alla compassione e alla pietà di una larva. Quella settimana sparì il prurito e sparirono i lividi. Quando feci vedere la pelle rinata al mio amico lui scosse la testa, la scosse così tante volte che dovetti prenderla tra le mani e implorargli di smettere. Lui mi guardò negli occhi – i suoi erano blu cielo, i miei il colore del grano appena bruciato – mi abbracciò e mi disse di prepararmi al peggio, disse proprio così: «Preparati al peggio». Scosse di nuovo il capo, voltò le spalle e quella sera sparì, sparì per sempre dalla mia vita.
Un parassita come la larva migrans non dà tregua, questo ho capito quando è ritornato il prurito. Stava acquattato come un abile guerriero pronto a sferrare l’attacco finale. E l’attacco arrivò di notte, perché la notte si è più deboli per affrontare qualsiasi battaglia. La larva scalò il collo per arrivare alla faccia, faccia che divenne gonfia e arsa e livida. Andai allo specchio ma non riuscii a vedermi perché gli occhi erano diventati delle piccole fessure. Nel buio cercai la finestra, era aperta e mi lanciai nel vuoto. Il volo fu breve sotto il cielo stellato di quell’ultima estate. Qualcuno urlò: «Fate presto! Fate presto!», poi il suono lontano di una sirena e non sentii più nulla.
«Gaia, è ora di scendere, siamo atterrati. Ti vuoi svegliare?». Apro gli occhi e vedo Simone che mi scuote, mi getta dell’acqua fredda sulla faccia. Ho voglia di raccontargli l’assurdo incubo ma lui prede lo zaino e mi strattona per portarmi giù dall’aereo. Sull’autobus che ci riporta in città Simone continua a parlare, è eccitato perché, dice, il viaggio in Colombia gli ha dato una nuova energia, si sente rinato. «Vedrai, Gaia, l’articolo che scriverò ci porterà lontano». Con la sua infantile felicità riempie lo spazio tra noi e non si accorge che io sono lontana. Dal finestrino vedo la città che ci aspetta, nell’aria torbida distinguo le sagome dei grattacieli inerti e primitivi come lame conficcate nella terra. Sono stanca e dolorante e sudata, con la mano mi asciugo la fronte, forse ho semplicemente la febbre, mi dico. Poi vedo sul braccio sinistro un piccolo livido appena sopra il polso, lo avvicino al viso per osservare meglio quella strana macchia che somiglia tanto a una buffa faccia sorridente, come quelle disegnate da un esercito di bambini.
©MimmaRapicano