AMARO
Ho fatto il muratore perché una mattina ho incontrato Gennaro. È stato un lavoro faticoso, ma un lavoro faticoso era quello che mi serviva. Le cose, certe volte, vanno proprio come devono andare.
Inverno, poco prima dell’alba. M’ero abbandonato su una panchina in una strada di periferia. Fumavo, svogliatamente. Le periferie sono tutte uguali: ampi tappeti d’asfalto e caseggiati di nudo cemento simili a prigioni. In uno di quegli edifici da poco abitavo anche io e la notte uscivo per concedere l’ora d’aria ai mostri che tenevo dentro. La nebbia di quella mattina inghiottiva il flebile bagliore dei lampioni e la luce si fermava a mezz’aria lasciando la strada ancora al buio. A chi dormiva nei freddi e anonimi appartamenti non importava cosa accadeva di sotto. E di sotto accadeva di tutto.
Dall’altro lato della strada intravedevo delle figure umane. Erano gli esili corpi dei ragazzi di colore che stavano lì ad aspettare. Chi cercava lavoratori che non si sarebbero lamentati della paga e della fatica poteva trovarli in quella parte della città. Gli extracomunitari sono la migliore manovalanza perché lavorano come se il giorno non avesse mai fine.
Anche Gennaro quella mattina cercava operai per terminare in fretta un lavoro. La sua auto andava su e giù sullo stradone per sceglierne qualcuno ma quando mi vide fu colpito dal mio aspetto. La verità l’ho saputa dopo. Gennaro credette di riconoscere in me un suo maestro delle elementari. Uno che era sparito improvvisamente, senza lasciare nessun biglietto di addio alla famiglia, ogni cosa in ordine nell’appartamento come se dovesse ritornare da un momento all’altro. Quel maestro lui se lo ricordava bene perché spesso, dopo le noiose lezioni di italiano, matematica e geografia, leggeva alla classe delle storie fantastiche che incantavano tutti. Gennaro mi confessò che quando il maestro leggeva lui sentiva una strana emozione, un senso di pace, qualcosa che nella sua vita non ha più riprovato. Se il maestro non fosse sparito, mi disse un giorno, forse lui avrebbe continuato ad andare a scuola e magari il muratore lo avrebbe fatto qualcun altro al posto suo. Ma il suo destino si era compiuto a sedici anni con la fidanzata incinta, perciò mettere su famiglia fu la sola scelta da fare.
Io, seduto sulla panchina, non cercavo un lavoro, fumavo una sigaretta dopo l’altra e guardavo i ragazzi dal corpo di petrolio dall’altro lato della strada. Mi sembravano felici più di me.
Gennaro fermò l’auto, abbassò il finestrino dal lato del passeggero e mi chiese se volevo lavorare. Guardai nell’abitacolo e vidi la sua faccia sorridente cotta dal sole. Indossava una maglietta bianca stropicciata troppo piccola per le sue spalle robuste, e dei pantaloni chiazzati di calce. Annuii, non so perché. Lui fece cenno di salire e in un attimo mi ritrovai seduto al suo fianco. Iniziò a parlarmi del lavoro anche se io non capivo bene le cose che mi diceva.
«Come ti chiami?» mi domandò. Il mio nome, quello vero, non volevo più sentirlo. Esitai prima di rispondere. Poi, leggendo un manifesto con la pubblicità di un digestivo, dissi: «Amaro, mi chiamo Amaro».
La prima a capire come stavano andando le cose fu mia moglie: «Ti perderai», mi disse una sera, «ed io non ci sarò per riportarti indietro». Io lasciai cadere la frase come avevo lasciato cadere la mia vita prima di incontrare lei. Mia moglie era una donna bella, raffinata e piena di fascino ma io non davo alcun peso a quelle che chiamava le mie sensazioni. Soltanto dopo ho capito. E quando davvero mi persi per la seconda volta, fu troppo tardi per qualsiasi cosa. Lei non c’era più.
Prima di diventare “Amaro, il muratore”, vivevo con mia moglie in una bella casa e insieme gestivamo la nostra libreria. Lei curava l’amministrazione, io mi occupavo dei clienti alcuni dei quali diventarono nostri cari amici. Una quasi felicità, la nostra.
In libreria potevo discutere liberamente di letteratura, di filosofia, di arte. Leggevo, studiavo e riempivo interi quaderni di appunti, quaderni che ho bruciato quando ho compreso la totale inutilità dei miei scritti. Mi illudevo di sapere tutto sull’irrequietezza degli esseri umani. Poi un giorno mia moglie si ammalò: amnesia globale transitoria. Aveva grossi vuoti di memoria eppure ricordava ancora di avere un marito, e questo per lei non fu un bene. In poco tempo la sua amnesia peggiorò e divenne permanente: di me non ricordava che il nome, un nome che però non associava più alla mia faccia. Ora mia moglie è nuda vita, organi che pulsano e sangue che scorre, anche quelle sue sensazioni sono sparite. Per lei ogni giorno è un giorno nuovo, il tempo non conta più e vive in un suo piccolo presente. Colpa tua, mi ha detto qualcuno.
Da quando ho incontrato Gennaro sono passati due anni. Fare il muratore mi ha insegnato che la vita è molto più semplice di come la credevo io. A Gennaro non importa chi sono stato prima, l’importante, dice, è lavorare con onestà. Io, nonostante la mia età, faccio un po’ di tutto: impasto la calce, sposto i pesanti blocchi di mattoni, pulisco gli attrezzi e metto in ordine a fine giornata.
Gennaro ha le sue regole e anche se fare il muratore è un lavoro sporco e massacrante, lui alla pulizia ci tiene molto. Le case in cui lavoriamo, ogni sera vanno lasciate pulite perché dopo, dice lui, è più facile orientarsi. Pulizia e ordine sono le sue regole genuine e concrete.
Gennaro non ha ancora trent’anni ed è già un muratore esperto. Lui riesce a rendere belle anche le case più fatiscenti. Di solito gli viene chiesto di dare solamente una tinteggiata alle pareti, rendere abitabile gli spazi più angusti, ma lui è così convincente che alla fine, togli un muro qui, alza una parete là, in una casa ci stiamo tre o quattro settimane. Quando Gennaro consegna un appartamento finito è sempre soddisfatto per il lavoro riuscito bene. La riconoscenza di chi andrà ad abitarci è per lui una parte importante di quella che definisce la sua missione. E parte della sua missione è anche saper ascoltare l’anima di una casa e rispettarla per farsi accettare. Io quella teoria proprio non riuscivo a capirla. Per me le case erano tutte uguali e non esisteva nessuna anima, soltanto il degrado evidente anche dopo i lavori di ristrutturazione. Quegli spazi ripuliti, dunque, rimanevano per me l’amara testimonianza del fallimento e della povertà.
Un giorno siamo andati a vedere un appartamento da risistemare. Il palazzo era in rovina, segni di infiltrazione d’acqua e muffa sui muri. Il cortile aveva un giardino pieno di sterpaglie e tronchi di alberi tagliati, al centro un pozzo coperto con delle lamiere e intorno due panchine di pietra lavica. Forse un tempo vi si sedevano i vecchi del palazzo per chiacchierare o semplicemente per godersi il fresco degli alberi, pensai.
La casa era al primo piano e, appena entrai, iniziai a sudare nonostante fosse inverno. Subito dopo ebbi la sensazione di sentire un respiro, quasi un rantolo provenire dalle stanze vuote. La casa puzzava di fiori marci, lo stesso fetore dei cimiteri. La coppia di anziani che vi abitava era morta da qualche mese, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altra. Quando Gennaro entrò fece un lieve inchino, io lo guardai stupito. Mi disse che conosceva bene don Peppe, l’anziano che abitava là, un uomo che gli aveva insegnato ogni cosa sul mestiere di muratore, una persona tanto umile quanto severa che lo aveva preso come apprendista quando lui aveva bisogno di un lavoro per mantenere la famiglia.
Mentre giravamo nell’appartamento ci colpì la grande quantità di buchi sulle pareti che sembravano minuscole caverne dentro le quali occhi indiscreti scrutavano i nostri movimenti. A cosa servissero quei fori o cosa li avesse prodotti, nessuno seppe spiegarlo. Quando iniziarono i lavori ci vollero parecchi giorni e parecchio stucco per riempirli. Passavamo intere giornate alle prese con quei fori eppure, quando ritornavamo il giorno dopo per riprendere il lavoro, le pareti erano di nuovo bucate. La scoperta ci fece rabbrividire. Qualcuno disse che era meglio chiamare un prete e far benedire la casa, ma Gennaro sostenne che la colpa era di qualche stronzo che di notte si divertiva a farci un dispetto. Bisognava smascherare il bastardo, e per farlo qualcuno doveva rimanere là. Nessuno fiatò ma tutti guardarono me. Il volontario era stato scelto.
Gennaro procurò le cose necessarie per trascorrere la notte nella casa: panini, una torcia, una lampada da campeggio, un materassino gonfiabile e delle coperte. Quando tutti se ne andarono e restai da solo, mangiai subito un panino standomene seduto a terra con le spalle appoggiate a una parete. Dal balcone la luce del giorno calava in fretta e il tramonto si allungava pigro sul pavimento. Nessun rumore arrivava dalla strada ed era persino piacevole stare lì. Fumai una sigaretta e quando il giorno sparì del tutto, la stanza divenne buia e fredda. Accesi la lampada, mi sistemai sul materassino e appoggiai sulle gambe una coperta. Quella sera, dopo tanto tempo, ripensai alla libreria, alle chiacchiere con i clienti, alle cene in compagnia di mia moglie e al suo sorriso pieno di speranza quando ancora ricordava di amarmi. Era la prima volta che sentivo forte la sua mancanza. Mi mancavano gli abbracci e il suo corpo perfetto avvinghiato al mio. Con quella nuova vita, un nuovo nome e senza passato, cercavo di espiare tutte le colpe, di dimenticare i rimpianti e il dolore. Ma lì ho capito che era impossibile cancellare ciò che ero stato. Ero scappato ancora una volta come il più meschino dei vigliacchi e inventarmi più vite non era bastato a salvarmi. Mi addormentai per la stanchezza e per il peso della vergogna.
Nel silenzio della notte fui svegliato di soprassalto da una voce che ripeteva il mio nome, il mio vero nome. Affannavo, tremavo, è stato un brutto sogno, pensai. Accesi la torcia e mi guardai intorno, poi sulla coperta vidi una finissima polvere bianca. Tutto il pavimento, pulito la sera prima, ne era pieno. Alzai la testa e puntai la luce verso le pareti. I buchi che avevamo riempito con lo stucco erano di nuovo vuoti. Intanto quella voce ripeteva il mio nome e la stanza si riempì di profumi intensi: l’acqua di rose di mia madre, la brillantina usata da mio padre per tenere fermi i suoi capelli ricci e ribelli, il ragù di mia nonna, la dolce risata di mia moglie. Voci, odori, profumi arrivavamo dai buchi sulle pareti. Mi riaddormentai o persi i sensi, non saprei dire. Ricordo invece che fui svegliato da Gennaro che mi strattonava e mi chiedeva se stavo bene. Era preoccupato perché aveva visto quello che non avrebbe voluto vedere.
I lavori non furono mai completati perché la casa respingeva qualsiasi intervento. I proprietari rinunciarono alla ristrutturazione e io la comprai pagando più di quello che valeva.
La casa adesso è mia. Dentro ho lasciato ogni cosa come quella notte: la lampada, il materassino, le coperte. Vi ho portato soltanto qualche abito, dei libri e un fornellino a gas che mi ha regalato Gennaro.
Oggi non faccio più il muratore. I mostri e i sensi di colpa sono spariti. Di notte resto sveglio aspettando le voci, gli odori e i profumi. La mia anima adesso respira nell’anima bucata di questa casa.
Ho ripreso a leggere e lo faccio ad alta voce. I fori alle pareti diventano sempre più numerosi, io li guardo moltiplicarsi e da ognuno di essi arriva un nuovo odore, un profumo o una voce a farmi compagnia.
Gennaro ogni tanto passa a trovarmi, porta una bottiglia di vino e si siede al mio fianco, ne versa un bicchiere a me, due dita a lui. Poi fuma la sua sigaretta e non dice nulla. A volte arriva mentre sto leggendo, allora ascolta e chiude gli occhi. Mi dice che qui si sente stranamente in pace e che io, sempre di più, gli ricordo quel suo maestro delle elementari. Gennaro è proprio un bravo ragazzo, lo è sempre stato. Fin da bambino, quando in classe ascoltava estasiato le mie storie.
©MimmaRapicano