PROGETTO DI VITA

L’appuntamento con il medico è alle quattro del pomeriggio. Io arrivo in anticipo e nell’angusta sala d’aspetto oltre me non c’è nessun altro. La donna in camice bianco che ha aperto la porta mi ha detto che non entrerò prima dell’orario concordato con il medico. Per fortuna con me ho un libro, lo apro e cerco di non pensare. Non pensare, mi ripeto, non pensare e segui ogni parola fino a dimenticare il perché sei qui. Io da un neuropsichiatra non c’ero mai stata e credevo che nella vita non ne avrei mai avuto bisogno. Negli ultimi tempi cambio spesso idea sulle questioni che mi riguardano, oramai non ci faccio più caso.
Alle quattro in punto una porta scorrevole si apre e una figura minuta si affaccia nella sala d’aspetto, è il medico.
«Prego, – mi dice, – entri pure».
Entro in una grande stanza che puzza di vecchie cose illuminata solamente da una lampada sulla scrivania. Non mi fa una buona impressione, l’istinto mi dice di scappare, ma resto. Seguo il medico senza dire una parola mentre lui mi indica dove sedermi. Mi siedo e mi accorgo subito che la sedia è piccola e scomoda mentre la sua poltrona è grande e sproporzionata rispetto alla sua statura. La scrivania è un caos, libri e pile di fogli e cartelline da un lato e un imprecisato numero di fotografie incorniciate dall’altro. In una mi pare di vedere lui, il medico, al fianco del Papa. Quando gli occhi si abituano alla penombra, noto che le pareti sono tappezzate di crocifissi di varie dimensioni e materiali, qui l’uomo in croce domina su ogni cosa. Ho i brividi e sento le spine della sua corona penetrare nella mia carne. Sulle mensole e sui mobili, invece, ci sono un imprecisato numero di orologi che con il loro ticchettio rendono la stanza ancora più opprimente.
Rimaniamo entrambi in silenzio, lui chino sulle sue carte, io immobile in attesa di qualche domanda.
Poi all’improvviso: «Perché è qui?» mi chiede senza alzare il capo dalla scrivania. Non so cosa rispondere, o meglio non so da dove iniziare. Anche stavolta ho voglia di alzarmi e andare via, ma resto.
«Perché è qui, signorina?» ripete. Ingoio la poca saliva che mi è rimasta e inizio a parlare.
«Sono qui perché… perché ho bisogno di dormire» sussurro. La stanza è così poco accogliente che dubito si possa guarire in un posto del genere, mi sento a disagio.
«E perché non dorme?». Gli descrivo quelli che io credo essere dei seri e insuperabili problemi, i mille dubbi esistenziali, il lavoro perso da poco, l’amore mai trovato, la solitudine, la noia, il sentirmi sempre fuori posto e senza la speranza per una vita migliore, una vita se non felice almeno serena.
«Pensa mai alla morte?» mi chiede bruscamente. Faccio una lunga pausa, poi ricomincio a parlare di me, delle mie sensazioni, dell’infinita tristezza. Ci giro intorno, cerco le parole più adatte poi finalmente gli parlo dell’idea di farla finita, del suicidio come soluzione a tutte le mie sofferenze, un pensiero fisso, gli dico, che mi tormenta da settimane. Quando pronuncio la parola fallimento il medico alza di scatto la mano e mi interrompe nuovamente.
«La radice etimologia della parola fallimento, – dice, – deriva dal latino fàllere, e il suo significato è anche ingannare, indurre in errore, sbagliare. Lei, cara signorina, mi sta ingannando, mi descrive malesseri comuni ma tiene per sé il vero motivo della sua venuta qui. Non è vero? Mi dica, ha un progetto di vita?».
Progetto di vita? Cosa significa avere un progetto di vita? Sono nata per assecondare un progetto dei miei genitori, non mio; ho avuto un’istruzione non per scelta ma perché altri me lo chiedevano; anche lavorare non è stato un vero progetto ma soltanto la necessità di sopravvivere. Con una sola domanda il medico ha fottuto la mia depressione, ho lo stomaco sottosopra e le vertigini come sulle montagne russe. Resto in silenzio perché non so cosa dire.
«Al momento, credo di non avere nessun progetto di vita. Ma se progetto di vita significa avere dei sogni, sì, – gli dico, – avevo anch’io dei progetti da realizzare. Volevo essere speciale e creare qualcosa di memorabile ma alla fine mi sono arresa perché per realizzare i sogni bisogna avere tenacia, forza, volontà e ambizione. A me è mancata la terra su cui piantare la tenacia, la forza, la volontà e l’ambizione. Mi sono abbandonata agli eventi senza opporre resistenza, ho ingenuamente traslocato la speranza di un riscatto di sogno in sogno senza mai arrivare da nessuna parte. La sensazione ora è di trovarmi bloccata a un bivio incapace di scegliere la direzione giusta. L’idea del… suicidio, mi pare… mi sembra l’unica vera scelta da fare».
Il medico mi ha ascoltata con gli occhi chiusi e la testa appoggiata allo schienale del suo trono di pelle. Il buio oltre la scrivania è profondo e il ticchettio degli orologi mi buca il cervello. Poi lui apre gli occhi, si alza e viene verso di me con in mano un piccolo martelletto metallico, dà dei colpetti leggeri ai gomiti e alle ginocchia, mi fa camminare avanti e indietro, prima con gli occhi aperti poi con gli occhi chiusi. Con un attrezzo speciale mi guarda prima la lingua, poi in fondo alla gola, mi tasta le tempie e mi ruota il capo a destra e a sinistra. Con lo stetoscopio ausculta il mio respiro e poi i battiti del cuore. Ritorna alla scrivania e lo osservo intento a scrivere dei numeri e fare dei diagrammi su un foglio a quadretti.
«Cara signorina io non posso fare molto per lei, soprattutto dopo che ha detto quelle cose e ha pronunciato la parola suicidio. La faccenda si fa seria e a me non è permesso prendere in cura pazienti che esprimono il desiderio di suicidarsi. Sono obbligato, secondo le nuove regole ministeriali, a consegnarla ai funzionari dell’ufficio creato apposta dal Ministero della Salute per seguire casi come il suo».
Io non capisco, ero certa che me ne sarei tornata a casa con una ricetta medica e i soliti antidepressivi, qualche farmaco ricostituente e un integratore per ravvivare l’organismo, e invece lui ora mi parla di funzionari, di un nuovo ufficio al Ministero, di casi come il mio…
«Scusi dottore, ma non ho capito».
«Le spiego: da un anno esiste un ufficio al Ministero della Salute che prende in carico tutte le richieste di… morte volontaria, loro lo chiamano così il suicidio. Come lei ben sa, i tempi sono bui, la gente è infelice e si ammala con maggiore frequenza. Sono in aumento i tumori e la scienza non ha ancora trovato un farmaco capace di sconfiggerli. È un dato statistico e le statistiche in medicina sono tutto. Al Ministero della Salute hanno commissionato uno studio a una nota azienda farmaceutica per capire il problema e trovare una soluzione. L’azienda, molto apprezzata negli ambienti medici per serietà e autorevolezza, ha scoperto che il problema maggiore è la carenza di donatori di organi. Tra le varie soluzioni proposte una potrebbe essere sfruttare, mi correggo, concordare con i futuri suicidi uno scambio, una cessione, diciamo così. Spesso chi decide di togliersi la vita è ancora in buona salute, gli organi sono sani e in grado di funzionare. Allora perché non usarli per salvare altre vite? Ai funzionari ministeriali è parsa subito una buona idea. Si sono riuniti i massimi vertici dello Stato ed è stata fatta una piccola variazione alla nostra costituzione, tutto regolare, si intende, solo che la variazione non è stata ancora comunicata alla stampa nazionale. Sa, il clamore non giova al nuovo corso della politica. Le spiego in dettaglio come funziona. Tutti i casi segnalati da noi specialisti, vengono analizzati dai funzionari del Ministero della Salute. Lo Stato si prende carico di certificare la reale necessità del suicida e si impegna ad aiutarli a portare a buon fine quest’ultimo desiderio. In cambio lo Stato chiede ai futuri suicidi la proprietà esclusiva del loro corpo. È un semplice contratto di cessione, nulla di più, contento il suicida, contento lo Stato che può salvare un’altra vita».
Inizio a sudare e mi sento sprofondare nella sedia, poi nel pavimento, giù giù fino al centro della terra. Dalla pila di cartelline che ha sulla sua scrivania il medico ne prende una che contiene un gran numero di fogli.
«Ecco, qui ci sono dei moduli da compilare per la richiesta. Sono tanti lo so, ma i funzionari, prima di convocarla per il colloquio, vogliono essere sicuri che la sua decisione sia volontaria e non condizionata da fattori esterni, che lei sia nella piena capacità di intendere e di volere, – fa una breve pausa poi riprende, – perché solo dopo l’incontro al Ministero della Salute, in presenza di una commissione esaminatrice si deciderà se accettare o meno la sua richiesta di morte volontaria. Le è tutto chiaro?».
No! Tutta la faccenda è grottesca e irreale. È uno scherzo, penso, questo non è il medico col quale avevo appuntamento. L’uomo che ho di fronte è un suo paziente, un pazzo furioso che avrà fatto a pezzi il vero medico e forse ucciderà anche me. Oppure è il medico a essere impazzito ed è a capo di una setta che cerca adepti da indurre al suicidio per poi trafficare con i loro organi. Lui mi osserva, si rigira la penna tra le dita e poi inizia a batterla impaziente sulla cartellina con i moduli. Segue il ticchettio degli orologi nella stanza. Segue il tempo e aspetta la mia risposta.
«Cara signorina, – riprende, – capisco la sua incredulità, ma le assicuro che tutto ciò non è frutto della mia fantasia, sebbene io goda di una fervida immaginazione, mi creda. Noi neuropsichiatri abbiamo ricevuto una circolare ministeriale, – mentre parla cerca tra le numerose carte che ha davanti, poi sfila un foglio pieno di timbri e firme e me lo mostra, – e tutti i casi come il suo vanno trasmessi per competenza al loro ufficio. Purtroppo non posso fare altro per lei se non consegnarle i moduli e passare il suo caso all’attenzione dei funzionari del Ministero della Salute. Quando mi consegnerà i moduli compilati io avvierò la sua pratica, dopodiché non ci sarà più nessun motivo che io e lei ci si incontri ancora».
Prendo la cartellina e mi alzo. Sto per uscire ma ho di nuovo un capogiro, mi blocco in mezzo al buio della stanza, faccio un lungo respiro poi mi volto e gli dico che ho bisogno di tempo, devo riflettere, forse non sono così depressa da desiderare veramente di farla finita. La voce mi trema, piango silenziosamente e sono piena di vergogna. Il medico non dice nulla, mi indica la porta e vado via senza neanche pagare la visita.
Torno a casa stordita e nauseata, vado in bagno e vomito. Butto nella spazzatura la cartellina con i moduli. Mi siedo alla scrivania, accendo il computer, avvio il programma di scrittura e inizio a scrivere il mio progetto di vita:

“L’appuntamento con il medico è alle quattro del pomeriggio. Io arrivo in anticipo e nell’angusta sala d’aspetto oltre me …”

©MimmaRapicano_2017

2 Comments

    1. Ciao Carlo, ti ringrazio per il commento. Sono felice se con questa storia sono riuscita a dare una speranza (almeno credo).
      Mimma

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