A DUE PASSI DA ME

A due passi da me la mia faccia, la stessa di sempre ma che oggi si specchia sui vetri della finestra di una camera d’albergo. L’albergo sa di salsedine e sudore, costruito troppo vicino al mare, quasi dentro al mare come un faro per i marinai sperduti.
Questo luogo d’illusioni estive, di bambini piagnucolosi, madri isteriche e padri sfatti, di costumi bagnati e suonatori di ukulele è il posto ideale per mettere un po’ d’ordine nella mia frastagliata esistenza.

La vita di un inviato non è fatta d’ordine, scrivo di guerre acide e polverose che con l’ordine non hanno nulla a che fare. Arrivo lì dove la storia non ha scrittura ma solo gesti e facce, e a certe latitudini ti accettano o ti uccidono solo guardando la tua espressione. Perché l’anima è solida ma la faccia è come la porta di casa sempre aperta.
La mia faccia in guerra è stata il mio passaporto, un prezioso salvacondotto. Ne ho visti di volti, gonfi, tinti di rosso, di adulti e bambini, mutilati e senza scarpe. Alcuni saranno difficili da dimenticare affidati alla mia memoria come cicatrici infette. È un lavoro rischioso il mio, sempre a inseguire le notizie senza pensare al pericolo o ai cecchini su tetti assolati perché la rotativa è già in moto e non può aspettare. Vado a passo veloce per dominare la paura e nascondo le emozioni nelle pagine sciupate del mio taccuino. Eppure, a ogni ritorno, è lo spaesamento che ti porti dentro come una mina inesplosa a rendere vulnerabile anche il più esperto dei corrispondenti di guerra.

«Qual è la mia faccia?», domando al mio analista, ma lo specchio magico della psicoanalisi tace e nessun conforto mi arriva dal suo riflesso. “… le facce degli uomini non stanno mai ferme, sono come antenne”, scrive David Foster Wallace, “ma l’unica cosa che fanno è spostarsi da una configurazione all’altra di pura inespressività”.
E allora li ho guardati gli uomini dell’opulenta civiltà occidentale, ho sfiorato le loro antenne insoddisfatte e rabbiose, ho visto le loro facce perdersi nelle crepe del quotidiano a inseguire la sazietà sempre a due passi da loro. Li ho visti sprofondare nell’aria pesante e immobile dei loro destini mentre io, sopraffatto da un osceno senso d’ingiustizia, cercavo una via d’uscita. Ma più mi allontanavo dalla realtà più l’orrore della guerra prendeva in ostaggio la mia vita. E se nelle metropoli di cristallo un’umanità svogliata e senza interesse consuma mediocrità e cibo in scatola, io ho scelto di raccontare le atrocità dai più remoti angoli della terra. Ho cercato di incastrare quella troia bugiarda che è la verità, ho implorato risposte che non sono arrivate e lasciato dietro di me spettri di città in attesa dell’ultima incursione.

Oggi la mia faccia non ha più espressione ma è glassa aliena sui corpi sfatti di chi ho abbandonato e visto morire.
Tra queste mura sigillate da respiri stantii ho confinato le mie ore in attesa del prossimo taccuino da riempire, del prossimo elmetto da indossare. Intanto scrivo. Scrivo per dare nome e memoria ai tanti volti che ho incontrato. Anch’io ho un nome ma il mio poco importa, perché in questa camera di un albergo troppo vicino al mare, quasi dentro al mare, un’anonima umanità prende vita mentre la storia perde i nomi e le sue facce.

©MimmaRapicano-ottobre2016

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